Assiduo frequentatore delle Isole Tremiti avevo sentito, dai racconti che mi avevano fatto alcuni locali miei conoscenti, di un motopeschereccio, il "PADRE GIOVANNI", affondato sul versante nord dell'ISOLA DI CAPRAIA in una zona conosciuta come "IL GROSSO". In un primo momento pareva che il natante si fosse incagliato su uno sperone roccioso sotto circa 27 metri d'acqua e poi, visto l'inclinatissimo fondale che caratterizza quella zona, fosse scivolato a profondità notevolmente più elevate. Già da tempo "corteggiavo" questa immersione... Per svariati motivi, fondamentalmente relativi a condizioni meteomarine sfavorevoli, non ero ancora riuscito a farla. Con l'amico Tony del TREMITI DIVING CENTER, già da qualche giorno ero in contatto aspettando pazientemente i giusti "allineamanti" necessari per poter effettuare l'impegantiva discesa. Finalmente, l'11 giugno del 2008, incontrammo una giornata dalle condizioni ideali (mare calmo, acqua limpida ed assenza totale di corrente) e quindi ci decidemmo di provare il tuffo. Giunto sul sito d'immersione, o per lo meno sul punto nel quale era stato visto inabissarsi il battello, con attenzione ormeggiammo la comoda barca che rimase incustodita. Con calma ci preparammo e saltammo nell'acqua con ben chiaro nella testa il piano della nostra immersione che per forza di cose, vista la profondità alla quale dovevamo lavorare, non poteva usufruire di tempi persi. Di preciso non sapevamo dove si trovava il relitto, neanche Tony che conosce questi fondali meglio delle sue saccocce, e più che avere una zona di certezza, ci dirigemmo verso una zona d'incertezza a cui rivolgere le nostre attenzioni. La parete subacquea è caratterizzata da una falesia che cade giù verticale fino ad una quarantina di metri poi, una breve zona di scogli è seguita da una scivolata di sabbia sulla quale è andato a finire il "motopesca". In breve raggiungemmo la base delle rocce ed iniziammo a perlustrare la rena perdendo gradatamente quota. Procedevamo abbastanza vicini l'un l'altro, io qualche metro sopra in modo tale da poter avere una prospettiva un po' più ampia. Dalla sabbia spuntavano delle belle e solitarie pennatule, ma del natante affondato neanche l'ombra. Intanto giungemmo alla quota di tutto rispetto di 70 metri. In quel momento, ventilando a 8 atmosfere di pressione assoluta, non è che potevamo stare a fare tante congetture sul dove fosse il relitto. Così, un po' a naso e con un po' d'intuito, decidemmo di indirizzare le nostre ricerche in un altro settore e senza perdere tempo compiemmo una decisa accostata alla nostra sinistra. Con lo sguardo attento scrutavamo davanti, gareggiando sempre con i minuti che inesorabilmente scorrevano e la lancetta del manometro a segnalarci la rimanente scorta di gas nelle bombole. Un alone un po' più scuro ed appena accennato, si stagliava appena sfumato sulla quinta sommersa del mare profondo blu scuro e senza ombre. A prima vista sembrava essere un grosso scoglio che rompeva la monotonia del fondo. Ci avvicinammo ad essa. C'eravamo sbagliati, non si trattava di uno scoglio isolato ma del relitto del peschereccio! La costanza, accoppiata a quel pizzico di fortuna che in certe occasioni non guasta mai, ci premiò. Dalle nebbie si materializzò lo scafo che era totalmente sbandato di 3/4 sulla sua dritta, quasi completamente capovolto, con la poppa rivolta verso l'isola e la prua, o meglio quello che ne rimaneva dopo l'impatto con la roccia, al mare aperto dove, controllando il profondimetro, c'erano 78 metri. Ci scambiammo un'occhiata soddisfatta. Il tempo dedicato alla ricerca per forza di cose assottigliò brutalmente quello da rivolgere al relitto. Con la mia torcia illuminai all'interno delle classiche aperture romboidali che caratterizzano i pescherecci potendo vedere i due grossi tamburi dei verricelli con i cavi e le reti da strascico ancora ammucchiate lì. Un fitto strato di alghe e concrezioni ricopriva sia esteriormente, che dentro, tutto lo scafo. Il tempo in quell'immersione fu tiranno. Ci cercammo con le torce per ricongiungerci ed iniziare, quindi, in fila indiana la risalita lungo la scogliera sommersa, incontrando sul nostro percorso tutta una serie di rottami ferrosi staccatisi mentre il battello effettuava la discesa verso il suo ultimo ormeggio. Salendo l'acqua divenne più calda (in basso c'erano 12°) e luminosa. La prima sosta di decompressione fu a 9 metri. Smaltimmo tutti i debiti di gas inerte successivi a 6 ed a 3 metri, curiosando senza annoiarci tra i molteplici microrganismi che popolano le rocce del bassofondo. Naturalmente una volta riemersi i nostri commenti furono entusiastici, scambiandoci sensazioni ed opinioni sul tuffo appena terminato, soddisfatti che la nostra esplorazione profonda si fosse risolta nel miglior dei modi con il ritrovamento del "battello".
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