DIVING & MOUNTAINS
Quando
mia figlia
era piccola,
un giorno
una signora
troppo curiosa
le chiese:
"MA CHE LAVORO FA
IL TUO PAPA' ?"
Lei ci pensò
un po' su.
Poi le rispose:
"LE IMMERSIONI
IN MONTAGNA !"
sabato 30 giugno 2018
^^montagna: "SIRENTE: QUANTO SILENZIO / CUMBRE"
Questo scritto necessariamente è un po' lungo, lettore porta pazienza.
Lo spunto per andare a scalare sull'Altare della Neviera del Sirente la via Quanto Silenzio (V°/D/100mt. aperta da M.Prignano e comp. nel 1984), aveva solleticato la mia fantasia già da tempo. Grazie a Cristiano che mi fornisce relazione e foto molto chiare posso iniziare a concretizzare i pensieri.
Con la documentazione al solito da me incellofanata ed in saccoccia, assieme a Fausto giungiamo nella fresca mattina del 30 giugno 2018 presso lo "Chalet del Sirente" da dove all'ombra della bella faggeta iniziamo l'avvicinamento.
Nel cuore dell'Appennino Abruzzese questo massiccio montuoso remoto, solitario e silenzioso da sempre ha esercitato su di me un grande fascino.
Dal punto di vista dell'alpinismo su roccia il Sirente è poco frequentato sia a causa degli avvicinamenti alle vie molto dispendiosi in relazione ai dislivelli da scalare, che per il tipo di calcare molto lavorato dal ghiaccio invernale.
Dopo essersi pressata a dovere, la mia molla della motivazione mi ha spinto per un'ascensione nel cuore del Sirente e precisamente sul pilastro di nord-est dell'elegante struttura chiamata Altare della Neviera che si raggiunge all'inizio salendo per sentiero sotto il bosco come stiamo facendo e poi per ripido, lungo vallone di instabili e franosi sfasciumi sassosi, lasciandoci alle spalle in totale un dislivello di quasi 800 metri da quando abbiamo chiuso lo sportello dell'automobile.
Piano, diversamente davvero non si potrebbe, ci troviamo a salire verso l'attacco che già individuiamo seppur lontano ed ancora in alto, non appena definitivamente siamo fuori fuori dal fitto degli alberi.
Un po' alla volta, un passo dopo l'altro l'obbiettivo s'ingrandisce davanti ai nostri occhi fin quando sudatissimi, e non dopo aver fatto non so quanti indesiderati scivolate indietro sul pietrisco cedevole giungiamo dopo circa due ore alla base dell'Altare.
La via che ci stiamo apprestando a salire fu chiamata dagli apritori "Quanto Silenzio".
Anni dopo, un'altra cordata pensando di essere la prima a mettere le mani in quella zona aprì e nominò "Cumbre" la scalata. A tutti gli effetti però i secondi non avevano fatto che la prima ripetizione di "Quanto Silenzio", la questione alpinistica verrà chiarita in seguito. A parte però la cronologia, sono le note scritte sulla relazione a riguardo dei tiri, difficoltà e proteggibilità che focalizzano la mia attenzione. Un'ulteriore postilla testualmente aggiunge:
"... roccia buona, a tratti anche ottima ...".
Leggere queste parole metterebbe qualsiasi scalatore nella miglior predisposizione, così con lo zaino in spalla guardo il compagno pronto a darmi corda ed inizio.
In ogni ascensione sono sempre estremamente concentrato ed attento, ed ogni movimento delle mani e dei piedi prima di metterli in pratica li compio dentro la testa, e la mia circospezione aumenta ancor di più quando affronto i primi metri di qualsiasi scalata.
Nome azzeccatissimo questo. L'ambiente attorno è austero e discreto con la sua totale assenza di rumori, ed a parlare è solamente un lieve fruscìo del vento.
Le difficoltà sono esattamente quelle descritte. Le soste incontrate giuste. La verticalità è totale, infatti quando guardo in basso tra le scarpette d'arrampicata vedo le corde che vanno sotto a piombo dentro i moschettoni. Eccellente è la possibilità di poter posizionare diverse protezioni intermedie.
La giornata è soleggiata, leggermente ventilata e con la parete ancora in ombra, quindi con temperatura ideale ne' troppo calda ma neanche fresca.
La cosa però che mi ha stupito in positivo è che la postilla che parlava di roccia ottima non esagerava assolutamente, le mani ed i piedi fin'ora hanno avuto sempre avuto prese ed appoggi compatti.
Sono arrivato sotto un muretto verticale fiancheggiato da una grande scaglia di roccia che con il corpo principale della montagna forma una fessura di una decina di centimetri attraverso la quale è possibile sbirciarci attraverso. Poco sopra intravedo un minuscola piazzola che, data l'ubicazione e la lunghezza della corda che fin'ora ho sfilato, dovrebbe essere la terza sosta.
Prima di alzarmi mi proteggo grazie all'ennesima fessura verticale del calcare larga un paio di dita ancora con un "friend" (un piccolo marchingegno a camme mobili che si posiziona bloccandosi nelle spaccature), e poi effettuo il movimento di rimonto.
Sulla sinistra vedo un chiodo sul quale per il momento mi fermo autoassicurandomi. Poi con tutta calma, vista che ce n'è sia il tempo ma soprattutto la possibilità, rinforzo la sosta posizionando prima un altro friend in una fessura, e poi montando un terzo ancoraggio grazie ad una piccola "clessidra", foro d'erosione passante nel calcare, nella quale infilo un lungo cordino che congiunge i tre punti. Solo allora dico al secondo in basso di salire. Dopo un po' mi raggiunge.
Il piccolo pulpito con due persone è scomodo. Tiro fuori lo scritto per rileggere la descrizione della successiva sfilata: "Salire dritti verticali sulla sosta, quindi aggirare sulla sinistra un piccolo strapiombo ... ecc. ecc."
Essendo questa via corta, superato quindi questo tratto verticale seguito poi da un altro tecnicamente più appoggiato dovremmo uscire dalle difficoltà sul pianoro sommitale dell'Altare della Neviera del Sirente.
Inizio ad osservare.
Sulla destra c'è un netto e piccolo scavo del calcare dove infilo il piede destro.
Poi con la mano destra a cercare e trovare una presa per le dita un po' svasata ma sufficientemente buona per trazionarsi.
Una tacca quasi all'altezza del ginocchio è il terzo punto grazie al quale riesco a caricare con delicatezza il piede sinistro e quindi innalzarmi.
Allungo il braccio sinistro ed individuo una presa che mi consentirà il movimento in diagonale alta a mancina e più su, per il momento ancora lontano, un potenziale punto per potermi proteggere.
Mi muovo assaporando solo per un momento il gesto perchè, all'improvviso, perdendo ogni riferimento delle tre dimensioni nello spazio e totalmente disorientato mi sento precipitare.
In questo brevissimo flash spazio-temporale mi rendo conto spaventandomi che sto volando faccia a valle: vedo la morena sassosa del vallone dove prima faticavamo in salita. Mi riesce anche di formulare un pensiero: "Spero che la cazzo di sosta regga!"
Poi in rapida sequenza o forse contemporaneamente: lo strappo non forte ma deciso sull'imbrago con il blocco del volo, un secco colpo all'osso sacro con un'immediato dolore fortissimo che letteralmente mi lascia senza fiato, una grandinata di pietre sul casco e l'inconfondibile odore di zolfo che si sente quando dei sassi con forza urtano tra loro. Il tutto accaduto in un tempo nettamente inferiore rispetto a quello che si impiega per leggere questo periodo.
Tutto poi tace.
Mi ritriovo appeso sotto la sosta che per il momento non riesco a vedere.
Sono scosso da un tremore con il cuore che da dentro mi martella lo sterno.
Urlo, chiamo e mi lamento per il dolore pulsante all'osso sacro. Fausto mi risponde e ci scambiamo subito le prime parole.
Piove ancora pietrisco, non guardo verso l'alto. Osservo ancora tremare incontrollatamente le mani tutte spellate.
Devo tornare a pensare per riguadagnare il pulpito di sosta sopra. Allora mi sistemo come meglio posso con i piedi su una minuscola cengia e mi agguanto a qualcosa sulla parete sulla quale mi schiaccio immobile con il respiro fuori controllo.
Accenno ad uno spostamento. Sento però immediatamente l'acuta fitta dolorosa in basso sulla schiena e m'immobilizzo.
Vorrei rimanere bloccato dove sono perchè irrazionalmente in questo momento ho la convinzione che possa crollare qualsiasi cosa.
Però devo scuotermi e con molto dolore sul punto colpito, piano per la seconda volta e con pensieri cupi nella testa scalo lo stesso passaggio sul quale poco prima mi muovevo solo con la piacevole concentrazione per i miei gesti. Mi ricongiungo a Fausto.
Osservo prima in basso vedendo i suoi piedi e le corde posate a terra ricoperte di pietrame, poi in alto dove al posto della struttura rocciosa sulla quale mi trovavo è rimasto solo un vuoto di color rosso/giallastro che capisco essermi franata sotto i piedi.
Tra lo shock ed il fortissimo dolore mi riesce difficile pensare.
Ci fermiamo. Ho la bocca arsa e secca, devo bere. Poi mangio qualcosa, ne sento l'esigenza. Passa qualche minuto. Questa parentesi mi ricarica un po'.
Di continuare conciato come sono non se ne parla. L'unica prospettiva è quella della discesa in corda doppia sulla via scalata.
Così inizio a fare. Per prima cosa pulisco la piccola sosta dal pietrisco che scaravento lontano nel vuoto e poi preparo per bene le matasse delle due corde. Il compagno, molto probabilmente pur non essendo stato lui il protagonista del volo ma solo spettatore, emotivamente è più provato di me, quindi m'è poco d'aiuto.
Queste semplici operazioni fatte in montagna non so quante volte, in questo momento mi costano una faticosa concentrazione mentale che unita alla sofferenza fisica mi costringono a riprendere fiato ogni pochi minuti.
Controllo ancora una volta tutta l'attrezzatura fissa dell'ancoraggio attrezzato, quindi non lancio le corde nel vuoto ma molto lentamente facendole scorrere una mano dopo l'altra con il discensore calo Fausto rallentandolo ulteriormente con un nodo di sicurezza. In un tempo che mi è sembrato infinitamente dilatato e parlando sempre tra noi intanto lui è arrivato sotto.
E' il mio turno. Ricontrollo tutto ripetendomi le cose a voce alta. Posiziono il discensore e verifico ancora. A corde distese pianissimo scivolo giù. Ad ogni lieve inclinazione del busto corrisponde una dolorosa fitta. Proseguo cercando di dare meno strattoni possibili per non far spostare il residuo pietrisco in bilico. Metro dopo metro a ritroso rivedo tutta la parete dove prima ero salito, ma non me ne frega proprio nulla. Quando ho la possibilità di poter appoggiare mani e piedi mi fermo a riposare. Atterro, ed anch'io tiro un primo sospiro di sollievo ben consapevole del fatto che non è finita.
Madido di sudore, sfinito di stanchezza e con un dolore che senza tregua pulsa ininterrotto, mi sdraio di lato sull'erba sotto le rocce ad occhi chiusi. Pare strano, eppure in tal modo per un po' riesco anche ad estraniarmi.
Riapro gli occhi. Il tempo della pausa è terminato. Inizia la via crucis della discesa sulla pietraia che in queste condizioni già dai primi metri spacca. Riesco a malapena a sollevare il tallone sinistro al massimo di una spanna dal suolo. Oltre, tutti i muscoli della gamba e del gluteo che si contraggono tirano la parte colpita facendomi sentire molto male. Per quanto possa dosare il peso sulle gambe, qualsiasi posizione d'equilibrio riguarda tutti i muscoli e le ossa del fisico, la conseguenza è che continuo ad essere pestato pesantemente sull'area dolente.
Nonostante ciò però cammino, mi muovo, scendo con le mie gambe e mi rincuoro non poco.
Più volte ci troviamo a scivolare sulle ghiaie ed allora sono imprecazioni.
Sono circa 300-350 i metri di dislivello che dobbiamo scendere in queste condizioni dentro la pietraia della Neviera, prima del sentiero battuto e la faggeta in basso che sembrano sempre immobili e lontani.
Così facendo finalmente in non so in quanto tempo, riusciamo a portarci fino al limitare dei primi alberi dove abbiamo tutti e due bisogno di stare per un po' fermi, idratarci e mangiare. Togliamo i caschi che avevamo ancora in testa.
Prima di ripartire, sotto di noi vedo una radura sulla quale distintamente spicca la traccia del sentiero. Per raggiungerlo nel più breve tempo possibile tiro la linea tra noi e quel punto e m'infilo senza esitare, dritto nella fitta ramaglia bassa dei faggi. In una situazione normale, vista la scomodità del procedere tra alberi così vicini tra loro mai e poi mai mi ci andrei a ficcare. Ma oggi non è una situazione normale perchè ogni metro in più aggiunto alla discesa sarebbe dolore in più. I bassi rami al solito impacciano il procedere, però hanno un rovescio della medaglia, almeno per me, perchè aggrappandomi a loro con le braccia scarico il peso del corpo dalle gambe e dalla zona offesa.
Arrivati sul sentiero raccolgo due rami che userò come bastoni d'appoggio. Devo comunque sempre fermarmi ed adagiarmi sul lato destro per riposare ogni pochi minuti perchè l'accumulo di stanchezza e stress psico-fisico non mi consentono di più.
Se penso a quanto manca ancora prima di ritornare alla macchina mi scoraggio, ed allora mi vieto di pensare al lontano obbiettivo concentrandomi esclusivamente sulla successiva tappa possibile in vista: un albero, una pietra, una svolta del sentiero, ed una volta che ci sono arrivato immediatamente ne cerco un'altra più giù. Con questo stratagemma che in certi momenti funziona ed in altri meno, proseguo contando i minuti, i secondi e persino i passi. Così facendo in quasi sei ore di vero travaglio da quando abbiamo lasciato la parete, in salita l'avevamo fatta in due ore, siamo tornati dov'era parcheggiata la macchina dove stremato mi distendo sulle foglie per terra.
Fausto guida ed io sul lato passeggero ho reclinato tutto il sedile in basso per stare coricato di fianco, rimanere seduto è praticamente impossibile. Appena riesco contatto Carla e le racconto tutto. Lei ascolta. Capisce cos'è successo e mi chiede se riesco a star seduto. Alla mia risposta che non è proprio cosa, da ex sportiva agonista ed allenatrice anticipa quello che poi sarà il responso oggettivo dell'esame radiografico che farò il giorno dopo e mi dice: "Con molta probabilità ti sei fratturato l'osso sacro".
Rientro a casa alle ventidue e trenta. Dodici ore prima a causa di un crollo di una roccia ero volato ritrovandomi appeso ad una corda su una parete di montagna ferito e molto spaventato. Dolorosamente, ma fortunatamente con le mie forze, sono riuscito a riportarmi a valle. Rientrare tra le mura amiche, seppur con le energie ridotte a zero, è una bellissima sensazione. A caldo questa è la prima considerazione.
In trent'anni di pratica di attività non so quante volte mentre scalavo sono passato su rocce con colore diverso dove in epoche precedenti, giorni, mesi, anni o secoli c'era una qualche struttura rocciosa che poi un giorno per la naturale erosione causata da ghiaccio, neve, pioggia, in un attimo è caduta giù. Questa è la normale essenza della genesi di tutte le montagne.
Sono "volato" perchè un pezzo di roccia sul quale mi trovavo è crollato. Se ciò fosse accaduto geologicamente qualche giorno o mese o secolo più tardi sarebbe stato sicuramente meglio per me.
Sfiga? Si, forse. Nel calcolo delle probabilità ho pescato la penalità. Avrei avuto però le stesse identiche probabilità, ne' più ne' meno, di pescare il Jolly. Però chissà poi quante altre volte gli alpinisti sono passati su solide rocce che poi un giorno crolleranno? E chi lo sa? E chissà quante volte ho, o abbiamo, pescato il Jolly e non ce ne siamo resi conto. Questi ragionamenti di probabilità sono convinto si possono applicare indistintamente in qualsiasi attività umana di lavoro e di vita di tutti i giorni, e non solo in certe pratiche più esplicitamente non scevre da rischi oggettivi come scalare montagne.
Anche un pizzico di fortuna c'è stata però?
Si, forse, però il ragionamento da un punto di vista logico è identico e diametralmente simmetrico.
Dopo una manciata di ore dal fatto, anche se duramente pestato, sono rientrato a casa.
Quando scalo in montagna sono circospetto ed a volte anche lento perchè ogni gesto lo penso e lo ripenso prima di farlo. Sono lento anche perchè se ce n'è la possibilità non esito a proteggermi anche più del necessario, ed a volte sono criticato dai miei compagni di cordata per questo fatto.
Scalo spesso con lo zaino perchè è parte della mia attrezzatura e di me quando vado sui monti. Nonostante la frattura comunque lo zaino ha ammortizzato il colpo.
Da tre decenni scalo da primo di cordata e ciò mi ha fatto acquisire sicuramente una maggior attenzione nei confronti innanzi tutto di me stesso. Di grande senso di responsabilità per le persone che sono legate all'altro capo della corda. D'infinita riconoscenza per i cari che sono a casa e che da sempre hanno supportato e sopportato le mie grandi passioni.
Questo esperienza ha amplificato la consapevolezza di sapere di essere in un ambiente che per quanto bello ed affascinante, è comunque alieno e ciò vale sempre, e sottolineo sempre, non solo quando si fa alpinismo ma anche quando, apparentemente senza rischi, si va a fare semplicemente una passeggiata tra i monti per raccogliere funghi.
Giacinto Marchionni
Relazione dettagliata ed emozionante;nella sfortuna la tua prudenza ha avuto un ruolo determinante, credo. È anche per questo che sei uno dei pochissimi compagni con cui ho scelto di scalare. A presto, Giacinto, sui monti!
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