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PESCARA, PE - Pescara, Italy


Affascinato d'immersioni che ho sempre praticato in apnea, poi dal 1981 con autorespiratori (A.R.A. / A.R.O. / E.C.C.R.) e fin da ragazzo frequentatore della montagna, costantemente armeggio con, pinne, maschere, autorespiratori, corde, ramponi, piccozze e sci.
Tuffi ed ascensioni qui li racconto con "filmetti", parole e foto.

mercoledì 2 maggio 2012

--immersioni: "LA PARETE DELL'ANNUNCIATA"

Questa volta in solitaria, dopo una settimana, sono nuovamente sulle sponde del LAGO DI SCANNO per tornare ad immergermi su quella che abbiamo battezzato “la parete”.
In equilibrio sopra sassi ricoperti con barbe di alghe infilo le pinne ai piedi, poi maschera e casco con i fari, quindi mi lascio galleggiare in acqua finalmente a gravità zero... Così, nuotando in superficie sul dorso, mi sposto transitando proprio sotto l’antica e caratteristica chiesetta dedicata all’Annunciata che si affaccia a balcone sul lago.
Proseguo incrociando una minuscola barca con su un paio di pescatori che hanno le lenze filate in acqua, li saluto. Giunto sul punto dove abitualmente s’inizia l’immersione, mi fermo un attimo prima d’andar giù.
La sensazione, dettata dalla conoscenza degli “umori” propri di questo sito d’immersione che avevo avuto osservando il colore dell’acqua poco prima, mi viene confermata non appena con gli occhi da dietro il vetro della maschera osservo il fondo: una densa foschia di limo nebbioso ammanta l’orizzonte sommerso tanto che se allungo il braccio con su lo strumento al polso e provo a leggerne le cifre sul suo schermo, faccio difficoltà ad individuarle.
Inizio così a muovermi sollevato di poco dal fango, ad una profondità di tre metri. Nonostante conosca il fondale di questi paraggi, con queste condizioni di limitatissima visibilità adopero la bussola per evitare deviazioni di rotta che farebbero solamente allungare i tempi d’immersione nell’acqua a 6° di temperatura.
Per forza di cose devo procedere lentamente, i numerosi tronchi affondati con l’intrico dei loro rami che incontro solo all’ultimo momento mi si materializzano a qualche spanna. Stesso discorso per i massi ed i grandi sassi che trovo dopo che si sono trasformati da indistinte ombre in quello che sono davvero.
Oltre, purtroppo, al solito arredamento “inurbano” formato da un imprecisato numero di vecchi copertoni d’automobili e non so quanti bidoni di latta di svariate dimensioni che imbruttiscono il fondale, ci sono anche una serie di relitti di vecchie e caratteristiche barche in legno, alcune delle quali con le prore squadrate, a ridare un po’ di “verve” al mio spirito di sommozzatore.
Queste barche sono concentrate lungo una linea batimetrica ondeggiante tra 3 ed i 5 metri. A tratti la visibilità è talmente limitata che è davvero tanto poter osservare da uno scalmiere all’altro. Da poppa a prua proprio non se ne parla.
Proseguendo forzatamente lento a blandi colpi di pinne, supero tutti i relitti e mi lascio andare un po’ sotto a più o meno 7-8 metri. E’ bastata questa modesta variazione di quota verso il basso a far diminuire la quantità di luce intorno. So che dovrò continuare a tale profondità fin quando non troverò sulla mia strada, ora diventata deserta e fangosa, un gruppo di massi che al solito, ma oramai mi ci sono abituato, da fantasmi si trasformano in realtà grazie ad una dissolvenza fatta di sospensione di limo e di luce crepuscolare.
Ci sono, li ho raggiunti.
Appena sotto di loro c’è ancora dell’inconsistente sabbia che ora ha un’inclinazione più decisa rispetto alle medie della zona e m’indirizzo da quella parte. Con pochi colpi di pinne raggiungo il limite del fango che bruscamente s’interrompe su di un ciglio roccioso: sono arrivato sulla parete.
Anche con questa visibilità ridottissima, questa linea di demarcazione si staglia perché il tono grigio, uniforme e monotono che fino ad ora mi ha tenuto compagnia, vira nettamente al nero di un fondale d’acqua senza fondo, o per lo meno di un’acqua che lo ritroverà una quindicina di metri più in basso.
Compiendo una rotazione di 180° mi pongo fronte alla parete e contemporaneamente volgo l’illuminatore verso la roccia sotto.
Espiro aria dai polmoni in modo tale da variare l’assetto un po’ in negativo ed inizio a scendere.
Anche questa roccia verticale che in assoluto non presenta niente di particolarmente interessante, dopo aver viaggiato solo su fango diviene fulcro per i miei occhi che lentamente se la vedono scorrere davanti e verso l’alto al rallentatore ad una velocità che stabilisco io.
Il fascio luminoso è sempre puntato di sotto per cercare di sbirciare nell’acqua diventata adesso nera, il fondale terroso nel quale la paretina affonda. Eccolo, sto quasi per atterrare, ma mi fermo sospeso a mezz’acqua gonfiando gradatamente il giubbetto ad assetto variabile ed un po’ anche la stagna che per la pressione mi si era incollata addosso.
Ristabilito il giusto assetto relativo alla nuova quota raggiunta di 16 metri, inizio a costeggiare la parete tenendola sulla mia dritta. Brandeggio la luce principale da destra a sinistra illuminando alternativamente la falesia sommersa ed il fondale che, dopo la verticale interruzione calcarea, riprende la discesa verso il centro del lago con moderata pendenza.
Questa nuova linea di confine tra roccia e terra, segue una profondità che gradatamente aumenta fino a circa 19 metri.
Supero un vecchio brandello di rete “incocciato” quaggiù e nel quale si vedono un paio di pesci in esso intrappolati oramai in avanzato stato di decomposizione. Ora la parete piega decisamente a dritta ed io la seguo. D’altronde non potrei fare diversamente perché in questa zona nell’acqua c’è una visibilità ancor più ridotta, forse al massimo 30 o 40 centimetri, e la concretezza della pietra è il mio momentaneo unico punto di riferimento.
Continuo sfiorandola con il gomito destro fin quando non percepisco poco dinanzi a me la sua fine. Se alzo un poco lo sguardo sopra la testa vedo un soffitto calcareo e intorno roccia, buio e fango. Se non conoscessi la morfologia del fondale potrei avere la sgradevole sensazione d’esser finito in uno stretto ed infido “cul de sac”.
Però non è così.
Voltandomi ancora completamente di un angolo piatto e volgendo la vista in su riesco ad intravedere, anche se in maniera vaga ma comunque sufficientemente rassicurante, il color verde scurissimo dell’acqua libera.
Vado in quella direzione.
La svolta della parete dalla quale sto venendo fuori forma in quel preciso punto una rientranza talmente pronunciata che a tutti gli effetti crea una piccola grotta, neanche tanto profonda, che però le disorientanti nuvole di limo vaganti fanno di colpo diventare uno stretto antro sommerso.
In avanti sono guidato dall’alone verde ed alla mia destra dalla roccia. In una bassa concavità della parete staziona un numerosissimo branco di piccoli persici, sicuramente sorpresi nel veder comparire dal nero assoluto un paio di misteriose luci. Non scappano però: potrei dire quasi che mi osservano curiosi. Arrivo così al punto nel quale le basi della parete risalgono verso l’alto. Invece di seguire questa strada, accosto alla mia sinistra verso l'inclinazione massima in basso.
L’artificiale cono luminoso generato dal potente illuminatore incontrando il fondale, forma un ovale che si muove a seconda degli spostamenti del mio polso. Ancora dei piccoli ed isolati pesci persici appoggiati a terra, mi tengono compagnia in questo momento.
Tutto intorno a me è solo buio ed acqua fredda, che lo strumento al polso mi dice essere a 6° centigradi.
Percepisco con i miei sensi il fondale ancora inclinato e questo accade fino a 25 metri, poi la pendenza sulla quale sto nuotando diminuisce nettamente ed infatti le cifre digitali del profondimetro hanno dei lentissimi incrementi di soli decimi di metro.
E’ arrivato il momento di tornare indietro.
Ancora una inversione di rotta di 180° per ripercorrere quel tratto di fondale che mi riporta sulla parete.
Adesso con il faro radente il fondo ed in risalita percepisco meglio l’inclinazione e noto anche molti più piccoli persici balzellare qua e là o, forse più probabilmente, la mia concentrazione durante la discesa poco prima non me li faceva vedere.
Per far defluire l’aria dalla muta stagna svito la valvola di scarico posta sul braccio sinistro ed inizio la scalata senza peso del muro di roccia scura che nel frattempo ho raggiunto.
Volgendo la testa in alto i miei occhi vedono al posto del nero stagliarsi il verde che diventa sempre meno cupo, fin quando non sono proprio sulla linea della cigliata in alto, dove ritorno ad essere avvolto da un nebbione che sfuma al verde chiaro.
Risalendo ancora qualche metro rientro nella fascia dove fra poco ritroverò i fantasmi delle barche di legno contornate dalle “inurbanità” viste prima. I rami di un grande albero completamente caduto in acqua, sono ricoperti di lunghi filamenti d’alghe che per la forma, alla lontana, mi fanno pensare alle gorgonie che si incontrano nei fondali marini.
L’aggiro continuando verso il punto del lago dal quale sono entrato trovando profondità sempre minori e riuscendo anche a vedere ora i raggi del sole inclinati che, in diagonale, penetrano nell’acqua.
Riemergo.
Tutto sommato la mia immersione è durata una sessantina di minuti.
Lì sotto però, da solo, dentro il buio pesto ed al freddo, era come se fossi isolato dentro la “bolla” della mia concentrazione i cui effetti influivano sul tempo dilatandolo.
Solo in tal modo esso si svolgeva ad una velocità che a me pareva ridotta.
Giacinto Marchionni

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