"Non tutti i mali vengono per nuocere", dice il proverbio. E' proprio vero. Diversi anni fa, assieme all'amico Maurizio, organizzai una giornata d'immersione alle ISOLE TREMITI.
Per l'occasione contattai un locale che conoscevo bene perchè già più volte avevo utilizzato i suoi servizi di "barcaiolo" per le immersioni. In pratica il "locale" ci veniva a prelevare sulla banchina dove sbarcava il traghetto, caricava noi e le attrezzature d'immersione (bombole, cinte piombate ed i pesanti sacconi) sul suo gommone, ci accompagnava sul sito scelto per il tuffo, ci attendeva mentre noi eravamo sotto ed alla riemersione ci riportava in banchina. Il tutto, sempre chiaramente, in scambio di un giusto compenso che noi sborsavamo.
Per parecchio tempo e fino ad allora in questo scambio era andato tutto liscio.
Quella domenica di luglio del '92, o era del '93, non ricordo bene, s'incrinò. Anzi, per meglio dire, si ruppe definitivamente e con il senno di poi dico a suo svantaggio perchè da allora quel tipo da me non vide più il becco di un quattrino.
Partiti da Pescara la mattina presto, con la macchina stracarica di roba da immersione giungemmo dopo una novantina di chilometri al porto di Termoli dove trasbordammo tutto sulla nave che, con un paio d'ore di navigazione, ci portò a destinazione. Giunti quindi sulle isole, riscaricammo tutto per trovarci nel porticciolo, sotto il sole caldo, in mezzo alla calca di persone che numerose raggiungono le Tremiti nelle domeniche d'estate.
Del "locale", però, non c'era traccia. Non era epoca di cellulari ed allora per avere sue notizie c'imbarcammo sopra uno scafo che effettuava il servizio di spola tra le due principali isole dell'arcipelago, sperando di trovarlo sull'altra sponda. Infatti era lì appoggiato ad una balaustra che, tranquillo e a voce alta, conversava con un suo "paesano".
Mi feci nei pressi e lo salutai.
Quello, manco mi rispose. Attesi qualche attimo e poi m'intromisi dicendogli che probabilmente s'era dimenticato del nostro appuntamento. Il "locale" mi osservò stralunato e, irritato, mi fece notare che stava chiacchierando. Un po' spazientito a mia volta gli feci notare che, come da chiari e non fraintendibili accordi avuti telefonicamente il giorno precedente, avevamo un appuntamento già scaduto, e non per colpa nostra, da più di sessanta minuti con lui ed il suo natante sull'altra isola.
Ancora con il sorriso sulle labbra e ben disposto, continuando, comunque sottolineai il fatto che nonostante tutto avevamo ancora voglia di farci una bella immersione.
"Immersione?", fece lui.
"Si certo, immersione, e sennò tutto stò popò di roba che ci stiamo portando a spasso da 'stamattina presto, la lasciavamo a casa!" gli risposi.
"Ma non vedete che c'è mare mosso?" ribattè il "locale".
C'era effettivamente una brezza tesa da nord che aveva increspato tutto l'orizzonte di spumette bianche, nulla di trascendentale però. Gli feci notare, ancora con garbo, che su tutte le isole del mondo se da un lato c'è vento con relativa maretta, sul lato diametralmente opposto per legge fisica deve esserci per forza una zona di calma o, come si dice in gergo marittimo, di ridosso. Per noi sarebbe andato bene qualsiasi sito d'immersione.
Il "locale" messo alle strette incominciò a sciorinare una dietro l'altra tutta una serie di scuse: che l'acqua era torbida, che c'era corrente, che il meteomar prevedeva un'intensificazione della forza del vento, che...che...che...che sarebbe stato meglio per noi quel giorno prendere il sole.
Aveva superato il segno!
A noi prendere il sole?
Provenendo da Pescara città di mare con una bellissima spiaggia sabbiosa lunga chilometri, il mare ed il sole li maciniamo da maggio ad ottobre tutti i giorni. Alle Tremiti noi andavamo, ed andiamo, solo per fare immersioni e basta!
"Insomma, quante chiacchiere stai facendo! Noi siamo arrivati quà carichi come muli per andare sott'acqua, ci porti o no?"
"Il gommone oggi non lo sposto." affermò deciso.
Accaldati, stanchi ed innervositi, apertamente inveimmo contro di lui.
Quello non fece neanche caso alle nostre parole che probabilmente suscitarono anche la sua ilarità. Non gli andava di fare un tubo. Per due turisti "persi" quel giorno, ne avrebbe fagocitati chissà quanti altri dei tanti che arrivano alle Tremiti durante tutta la bella stagione.
I nostri toni e le nostre parole non furono affatto gentili. Gli urlai in faccia che da me non avrebbe più visto il becco di un quattrino e per quello che mi riguarda così fu da quel 1993, o 1992 che fosse.
Con le pive sacco e con l'umore nerissimo ci ritrovammo a secco.
Seduto su una bitta della banchina, mentre aspettavamo la motobarca che ci avrebbe riportato sull'altra isola di colpo però mi vene un'idea, uno spiraglio di luce. Dallo zainetto srotolai la carta nautica dell'arcipelago che avevo ed ho sempre ogni volta che capito in quei paraggi. Con attenzione verificai le linee batimetriche (le profondità) che c'erano vicine dov'era ormeggiato il traghetto con il quale eravamo arrivati.
Perchè no, mi chiesi?
Controllai ancora, per lo meno nero su bianco la cosa era fattibile. Senza perdere altro tempo in chiacchiere, perchè per i miei standard già ne avevo fatte troppe, non appena ci riportarono dall'altra parte misi in pratica l'idea. Lontani dagli sguardi e dietro un gruppo di scogli ci preparammo e finalmente c'immergemmo in acqua per rinfrescarci non solo il corpo dalla calura, ma anche il bollore dello spirito.
Di lì a poco io e Maurizio scoprimmo un insolito ed interessante sito d'immersione che offriva una bella scogliera sommersa fino a circa 45 metri e passa di profondità, piena di paretine, spaccature, grotte, spugne colorate e pesci.
Da quel giorno quel posto divenne frequente mèta delle mie scorribande sub presso quei lidi in tutte le stagioni dell'anno.
Dopo aver sotto i flutti finalmente ritrovato la calma in noi stessi, naturalmente non mancammo di mandare definitivamente a quel paese nel vero senso della parola il Caronte traditore che da allora non volli ne' più vedere e sentire cancellandolo definitivamente.
E' proprio vero come dice la saggezza popolare del proverbio, che non tutti i mali vengono per nuocere. Insomma quello che all'inizio pareva prospettarsi come un assoluto flop per noi, risultò poi essere una fruttuosa giornata che nel corso degli anni a venire, subacqueamente parlando, mi avrebbe donato i suoi frutti.
DIVING & MOUNTAINS
Quando
mia figlia
era piccola,
un giorno
una signora
troppo curiosa
le chiese:
"MA CHE LAVORO FA
IL TUO PAPA' ?"
Lei ci pensò
un po' su.
Poi le rispose:
"LE IMMERSIONI
IN MONTAGNA !"
- Giacinto "zeta zeta" Marchionni
- PESCARA, PE - Pescara, Italy
Da sempre appassionato d'immersioni che ho iniziato in apnea e dal 1981 con autorespiratori ad aria, ossigeno e circuito chiuso. Nel poco tempo rimanente mi arrampico sopra qualche montagna.
Tuffi e scalate li racconto con "filmetti", parole e foto.
giovedì 30 luglio 1992
sabato 31 ottobre 1987
^^montagna: "LA FREDDA LUNGA NOTTE"
Questo è un breve racconto nel quale ricordo un'avventura montana vissuta assieme ad un amico alla fine di ottobre del 1987.
Partendo dalla Madonnina situata presso il Blockhaus, assieme a Massimo avevamo deciso di andare a vedere l'ampio anfiteatro roccioso che fa da cornice alla vetta delle Murelle, nel gruppo della Majella.
Con buon passo arrivammo fino al fontanino posto sotto il monte Focalone, quindi alla piccola costruzione in lamiera del bivacco Fusco per poi scendere nel vallone morenico situato tra il bivacco stesso e la cima delle Murelle. Da quel punto si possono osservare dal basso le imponenti quinte rocciose che quasi per tre quarti abbondanti d'angolo giro chiudono il cerchio dell'orizzonte.
Come sempre fino a quel momento le ore erano trascorse, anzi volate l'una dietro l'altra condite oltre che dalla voglia d'esplorazione, fatica e sudore, anche dalle tante risate, dalla goliardia e dalla spensieratezza, elementi altrettanto essenziali al nostro spirito.
Consumato il pranzo al sacco avevamo quindi deciso di effettuare il rientro non per l'itinerario percorso all'andata, cioè ripassando per il bivacco, ma uscire dall'anfiteatro aggirando verso sud lo sperone roccioso sottostante il Fusco, percorrendo un sentiero panoramico che in alcuni tratti un po' più esposti, ma non difficili, erano anche protetti da alcune corde fisse in metallo e catene.
Superati questi passi, non ci rimaneva altro che transitare brevemente in lieve ascesa su una traccia appena accennata tra i pini mughi che ci avrebbe ricondotto sul sentiero principale ben battuto e segnalato.
E così continuammo a camminare e chiacchierare tra la nebbia che intanto era calata anche molto fitta, tant'è che allontanandoci tra di noi per più di una decina di metri in certi momenti non ci vedevamo più.
Ad un tratto, dando uno sguardo all'orologio, pensai che era passato troppo tempo e che già da un po' avevamo dovuto raggiungere il sentiero. Qualcosa non quadrava.
Continuammo ancora nel grigio umido che nel frattempo si era ulteriormente addensato e con la luce del tardo pomeriggio, erano le 16 e 30, che iniziava a scemare visto che si era alla fine del mese di ottobre.
Nulla. Eravamo finiti fuori pista. La nebbia mi aveva ingannato facendomi smarrire la via.
Senza punti di riferimento visibili, senza carta, bussola ed altimetro ed immersi dentro un freddo vapore talmente spesso da tagliarsi praticamente a fette, era difficile capire dove ci stavamo dirigendo.
Quella manciata di minuti di luce che restavano a disposizione trascorsero davvero troppo velocemente, fece buio quasi all'improvviso.
Iniziammo ad essere sull'allerta: lo stato di fatto era che ci eravamo persi senza capire quale fossa la giusta direzione da seguire per ritrovare la via.
Massimo si preoccupava dei genitori a casa ai quali non aveva lasciato detto la meta della nostra escursione. Visto che i miei erano tutti fuori e quindi per quella sera non avevo nessuno che si sarebbe preoccupato di un mio eventuale mancato rientro, in verità lo ero più per la situazione contingente nella quale ci trovavamo.
Massimo con l'assillo del padre nella testa m'incitò senza posa a farmi strada al buio pesto dentro la sterpaglia fitta e contorta del pino mugo, convinto che così facendo avremmo ritrovato la pista conosciuta. All'epoca nel bagaglio della nostra scarnissima dotazione di montagna, le torce per illuminare non erano neanche prese in considerazione.
Dato che l'amico, tra l'altro, mi aveva contagiato parte della sua agitazione mi stavo muovendo senza nessun senso logico. Però quando mi resi conto di essere arrivato sul ciglio di un piccolo risalto roccioso alto un paio di metri al massimo che arrestò la nostra già improbabile avanzata, riflettei che un simile ostacolo incontrato alla luce del giorno lo si sarebbe tranquillamente aggirato, però di notte poteva diventare addirittura pericolosissimo se qualcuno di noi due in quel nostro procedere a tentoni fosse caduto da quell'altezza seppur non vertiginosa. Un banale infortunio, come ad esempio una semplice distorsione ad una caviglia, in un terreno del genere può diventare un serio problema. Per noi non era assolutamente il caso di azzardare.
Allora con questo pensiero, nonostante le proteste dell'altro, fui inamovibile nella decisione, stop ci si fermava lì a trascorrere la notte, punto e basta.
Massimo all'inizio non fu d'accordo, protestò e discutemmo animatamente poi, vista la mia risolutezza ed ascoltando le mie motivazioni capì. Si rese conto ed alla fine convenne anche lui che quella fosse la miglior cosa da fare. A quel punto dovevamo agire per noi, risolvere il nostro reale problema e dimenticare i pensieri degli altri che erano lontani fisicamente e mentalmente da quella situazione nella quale ci trovavamo: meglio un parente preoccupato a casa che uno di noi due con qualcosa di rotto persi in montagna. Stavamo scegliendo il male minore.
Così ci accingemmo a prepararci per quell'inatteso e forzato bivacco mai nemmeno lontanamente progettato e tanto meno immaginato nelle nostre se pur fervide fantasie.
Il nostro equipaggiamento, davvero poca cosa, era costituito da qualche strato di cotone. Infatti tutti e due indossavamo jeans, t-shirt, felpe e protetti, se così è permesso di dire, da mantelline impermeabile tipo K-Way. Da mangiare oramai praticamente nulla perchè avevamo esaurito tutto.
Fin quando ci eravamo mossi non ci eravamo accorti della temperatura della tarda sera di fine ottobre, ma non appena ci stabilizzammo in quello che sarebbe stata la sede della nostra notte all'addiaccio a 2000 metri di quota, i brividi iniziarono a farci tremare.
Massimo da appassionato di calcio ed accanito tifoso del Pescara quel giorno aveva con se il "Corriere dello Sport" che quotidianamente non mancava mai di comprare per essere aggiornato sulle gesta dei suoi beniamini biancoazzurri, i cui fogli opportunamente adoperammo senza l'intenzione di essere informati sui "pallonari", ma per avvolgerci busto e gambe.
Così conciati ci addossammo seduti spalle ad una roccia, stretti l'uno vicino all'altro e sopra la testa come tetto la tesa aperta dell'ombrello pieghevole che l'amico aveva nello zaino, pronti ad iniziare quella che poi avremmo in seguito per sempre ricoradato come "LA FREDDA LUNGA NOTTE. Erano all'incirca le 18 e 30.
Se all'inizio il freddo era a mala pena sopportabile protetti solamente da un po' di cotone e fogli di giornale, con il lentissimo scorrere delle ore divenne una tortura continua nei confronti della quale eravamo totalmente impotenti.
A momenti anche qualche sbuffo ventoso ci si insinuava dentro, giusto per farci perdere ulteriori calorie.
Il tempo sembrava essersi congelato assieme a noi. Almeno fossimo riusciti a dormire qualche minuto lo avremmo ingannato. Macchè. Certe volte chiacchieravamo un po' per cercare di sortire lo stesso effetto ma ... nulla da fare. Nonostante pensassimo che fosse trascorso chissà quanto le lancette dell'orologio incollate quasi sempre nello stesso punto impietosamente ci riconducevano dal mondo del tempo virtuale della mente, a quello reale scandito dai "secondi" che erano piccole, ma per noi eterne, frazioni di minuti ed ore.
Più del freddo concreto che ci stava attanagliando Massimo continuava a figurarsi il pandemonio che oramai era scoppiato a casa sua provando ad immaginare cosa stesse facendo il padre. Quello comunque era e rimaneva il suo assillo principale mentre io, invece, mi domandavo cosa avremmo fatto nel caso in cui non appena fosse passata la notte il nebbione fitto non si fosse sollevato. Quale direzione avremo preso?
Accovacciati, sotto l'ombrello, dentro quello spiacevole umido, l'unica vaga idea di luce era lo sfumato ed appena percettibile chiarore delle sfere fosforescenti del mio "Citizen" al polso. Il resto, ovunque, era gelida tenebra.
Ad un certo punto, non ricordò l'ora, a causa del freddo intenso avevo la vescica che mi stava scoppiando. Il sol pensiero però di alzarmi in piedi dal mio "bozzolo" per evaquare e così offrirmi maggiormente alla perdita di calore mi fece desistere e rimandare l'operazione.
All'incirca alle tre della notte la nebbia si diradò. Meno male, pensai tirando un sospiro di sollievo. Allora davanti ai nostri occhi si aprì un panorama montano notturno che all'inizio non riconobbi. Cioè mi spiego. Dopo esserci persi, i miei sensi disorientati avevano costruito un'immagine distorta del punto nel quale credevo fossimo totalmente differente dalla realtà della cose che grazie a quella schiarita potevo guardare. Le luci delle antenne della Majelletta, a me ben note, le vedevo spostate di tanto rispetto a dove mi sarei aspettato fossero.
Con attenzione memorizzai la cosa ed individuai quale doveva essere la direzione da percorrere di gran carriera non appena ci fosse stato chiarore a sufficienza per scappar via di là, anche nel caso in cui la nebbia fosse tornata ad ammantare tutto. Da quel momento sicuramente per me ci fu un peso mentale in meno e, fino quando non iniziò il crepuscolo dell'alba, fortunatamente fu sempre sereno. Sotto il cielo stellato però la temperatura subì un ulteriore calo: le nuvole basse avevano creato un microclima tipo effetto serra che in pochi minuti la "serenata" fece svanire. Quelle ultime ed interminabili ore del nostro bivacco forzato furono le più fredde in assoluto.
L'aria era tersa e cristallina e le stelle parevano pulsare. Sentivamo abbaiare in una lontananza non ben definita dei cani e la cosa ci preoccupò perchè tempo addietro un pastore della zona ci aveva detto che sulla Majella giravano dei branchi di cani rinselvatichiti. Ci sarebbe mancato solamente il fatto magari d'incontrarne qualcuno.
Lentamente, troppo lentamente, una sfumatura della notte appena meno scura ci avvisò che stava per iniziare il crepuscolo mattutino. In un arcobaleno in lentissima dissolvenza cromatica, della quale però in quelle condizioni di vero patimento di freddo non riuscimmo ad apprezzarne la mistica estetica, la luce si fece strada sulla notte.
Rintronati dal freddo fin dentro le ossa, eravamo davvero impazienti di muoverci, ma i contorni attorno a noi non erano ancora ben delineati e quindi purtroppo dovemmo aspettare ancora.
Finalmente quando la boscaglia di pino mugo passò dall'essere da una vaga ed indistinta ombra ad un qualcosa alla nostra vista di meglio disegnato di color verde, giunse l'ora di metterci in piedi. Eravamo stati accovacciati, praticamente immobili al gelo della notte dei duemila metri di quota di un fine ottobre che ci aveva rattrappiti, per quasi dodici ininterrotte ore.
La prima cosa che feci fu la pipì: fu una liberazione! Non finiva più di uscire e quando ebbi terminato mi sentii rinascere.
Poi immediatamente dopo ci incitammo: via, dovevamo andare via decisi nella giusta direzione che grazie alla nebbia dissolta potevamo vedere con chiarezza.
Questa andava su, dritta per la massima pendenza ad attraversare senza indugi l'inestricabile boscaglia di pini mughi dentro la quale per passare di gran carriera spezzammo rami, ci graffiammo, ci sporcammo di terra e strappammo i K-Way. Ricordo che il mio era di color giallo. Questa marcia forzata durò quasi un'ora a testimonianza del fatto che la sera prima la nebbia ci aveva talmente disorientati che, nel nostro camminare inconsapevole, avevamo perso davvero parecchia quota sulla costa della montagna.
La marcia dentro/attraverso il pino mugo però ebbe anche l'effetto di riscaldarci, e dopo tutto quel patimento prolungato era piacevole sentire il corpo che non tremava più. Quando uscimmo dalla boscaglia vicini al sentiero conosciuto avevamo perfino sudato.
La "FREDDA LUNGA NOTTE" era terminata.
Di corsa ripercorremmo la traccia che ci riportava all'automobile mentre la nebbia tornava nuovamente a chiudere gli orizzonti. Per un pelo.
L'ultima scena che nitidamente rivedo e ricordo è quella di noi due che entrammo di mattina presto nella deserta sala del bar dell'hotel "MAMMAROSA" alla Majelletta. L'addetto dietro il banco si stupì di vederci irrompere di gran carriera, imbrattati di terra, spettinati e graffiati. Non fece domande, e dentro di noi gli fummo grati di ciò. Gli chiedemmo dei gettoni telefonici che servirono finalmente a Massimo per poter comunicare "via cavo" con il padre che, non avendo avuto più sue notizie per tutta la notte e credendolo oramai disperso per sempre, al sentire la voce del redivivo figlio prima benedisse svariate santità nei confronti delle quali nutriva una particolare e fervente devozione, e poi via giù con una ramanzina con i fiocchi nella quale ero stato tirato dentro anch'io quale istigatore, mèntore e guida del suo primogenito in attività poco canoniche, minnacciando Massimo di non sò quali rappresaglie se mi avesse ancora seguito nei miei progetti!
Riagganciata la cornetta al solito per noi furono grasse risate! Il buon umore era tornato. Io però, a dirla tutta, per parecchio tempo ed a titolo precauzionale, ebbi ben cura di evitare le mura della casa dell'amico.
Ci facemmo servire quindi un paio di cappuccini bollenti a testa che scomparvero nelle nostre gole come in un gorgo andando ad iniziare a stiepidire i nostri visceri affamati. Non ricordo poi quanti cornetti alla marmellata famelicamente divorammo nello spazio temporale di un minuto al massimo.
Quella "FREDDA LUNGA NOTTE" ha segnato indelebilmente i miei pensieri in una tripla veste. Da una parte quella del chiaro ricordo nonostante gli anni passati di un'avventura intensamente vissuta, da un'altra quella degli imprescindibili e severi consigli "imposti" dalla Montagna a chi, attratto dal suo irresistibile magnete si accinga ad assaporarne la bellezza, il mistero ed il fascino, e non per ultimo di quel freddo patito.
Giacinto.zeta zeta. Marchionni (Brano tratto da miei scritti editi)
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Anfiteatro delle Murelle,
racconto
martedì 30 giugno 1981
--immersioni: "LA PRIMA IMMERSIONE"
Brano tratto dal libro "DISPOSITIVO AMPLATZER".
All'epoca, era il 1981, avevo racimolato a fatica centoventimila lire che, come si dice oggi, in due comode rate di sessantamila lire ognuna, mi avrebbero consentito di frequentare un corso sub per il conseguimento del "brevetto di sommozzatore", finalmente.
Ero stato letteralmente folgorato da quella scritta letta su di una locandina, e senza pensarci due volte, raggranelando tutti i quattrini che avevo e chiedendo qualche prestito, m'iscrissi trovandomi così a frequentare per un paio di volte alla settimana e per cinque mesi abbondanti, lezioni di teoria ed esercitazioni in piscina con un vero autorespiratore sulle spalle: quasi non mi sembrava vero! Tutto era nuovo, stimolante ed interessante. Fui così iniziato anch'io da un'altra cricca di saggi esperti all'uso corretto dell'attrezzatura subacquea.
Il battesimo nelle acque libere lo ebbi nel freddo e nel torbido del Lago di Bracciano, in provincia di Roma.
Mi trovavo su una spiaggia ghiaiosa del lago assieme ad altri sub, in località Trevignano, vestendo le mute e preparando le attrezzature.
La prova consisteva in un primo tuffo in apnea fino alla profondità di dieci metri, e di seguito in un'immersione con l'autorespiratore fino alla profondità di venti.
Con il mio compagno designato ci portiamo fino alla boa di segnalazione in superficie e, dopo una breve iperventilazione, con una capovolta scivoliamo verso il basso dove raggiungiamo un sub che controlla tutti gli allievi.
Quei dieci metri mi sono sembrati lunghissimi! Comunque arrivo, una parte è fatta.
Neanche il tempo di riprendere fiato sul pelo dell'acqua, che veniamo chiamati per il secondo esercizio.
Scendiamo sempre accoppiati lungo la cima zavorrata, superiamo il primo sommozzatore fermo a dieci metri ed andiamo verso il secondo che si trova ancora più giù.
Quando lo raggiungiamo questi ci fa effettuare tutta una serie di esercizi e per ultimo lo svuotamento della maschera, in questa strana luce crepuscolare, o penombra fangosa, un po' intimorente e mai vista prima.
Lo svuotamenbto della maschera provato e riprovato durante l'addestramento in piscina.
Lo svuotamento del quale la descrizione dello Zio Checco, fortissimo pescatore subacqueo, mi affascinò e spaventò al tempo stesso quand'ero bambino.
Lo svuotamento da me fatto nell'acqua fredda e torbida di questo lago come in una liturgia, ritualmente mi inizia nel "clan", facendomi diventare un "SOMMOZZATORE", parola che alle mie orecchie suonava e suona magica.
La prima immersione con le bombole non si può dimenticare, ed in particolare ho fotografato nella mia mente l'immagine delle mani che a causa della poca luce che penetrava ad una ventina di metri di profondità in quel lago, vedevo completamente bianche.
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Dispositivo Amplatzer
domenica 6 agosto 1972
--immersioni: "CHECCHINO E JACQUES"
Brano tratto dal libro "DISPOSITIVO AMPLATZER":
...riuscii anche a pescare qualcuno dei grandi cannolicchi della fossa e mi resi conto ben presto, in quelle immersioni, che la mia enorme maschera azzurra che copriva tutto il viso, compresa la bocca, non era il massimo della comodità durante la discesa. Mentre andavo sotto sentivo un forte fastidio alle orecchie che però all'epoca non sapevo spiegare.
Un giorno venne a far luce sulla questione lo zio Francesco, il fratello di mia madre, detto "Checchino".
Espertissimo sub, apneista di classe, fortissimo pescatore con fucile subacqueo e per me il dio Poseidone che sceso dall'Olimpo veniva a svelarmi i misteri del mondo sommerso. Zio Checco era spesso a pranzo o a cena a casa nostra. Era il classico zio, lo zio perfetto, quello che con pazienza ci faceva giocare e fare quello che più ci pareva, quello che ci raccontava barzellette, quello che ci intratteneva incantati per ore con i suoi racconti di pesca, di mare e d'immersioni.
All'epoca era considerato dagli amici cacciatori subacquei della zona il "maestro". Metodico, pignolo, quasi scientifico nella sua passione, addirittura rettificava con un tornio comperato apposta, le aste dei fucili sub per migliorarne le traiettorie in acqua. Raramente falliva un colpo, i suoi carnieri sono documentati da una ricca collezione di foto in bianco e nero che oggi religiosamente ancora conservo. Dentici, spigole, saraghi, ricciole e corvine erano inesorabilmente trafitti dal suo micidiale fucile idropneumatico modello "HYDRA" di marca "Alcedo Sub".
Riservato e taciturno in genere diventava un abile narratore quando ci descriveva le sue imprese, e rimanevamo letteralmente a bocca aperta all'ascolto dei suoi dettagliati racconti delle giornate trascorse facendo pesca subacquea. La preparazione dell'attrezzatura, il viaggio con il piccolo gommone "ZODIAC" caricato sul tetto della sua Fiat 600 prima, e della Lancia Fulvia HF poi, la navigazione, la pesca a 25 metri di profondità. Questa era la parte che mi intrigava maggiormente: la descrizione dei fondali, le alghe, i pesci, gli scogli, gli organismi marini, le avventure di caccia con le astuzie per catturare le prede, con i successi e gli insuccessi, o come le chiamava lui le padelle. Tutto questo catalizzava la mia attenzione, e la mente volava lontano.
Lo zio fondamentalmente era un apneista, ma qualche volta usava anche le bombole e così iniziò a parlarmi dei sommozzatori che con i loro autorespiratori sulla schiena, fasciati da nere ed aderenti mute di gomma penetravano i fondali verso un mondo silenzioso tutto da scoprire. Sognavo anch'io che un giorno sarei diventato come quegli esseri mitici, conoscitori di tecniche segrete che permettevano loro di rimanere e di respirare nell'irrespirabile, grazie ai loro misteriosi apparati.
Zio Checco, dicevo, fece luce sulla faccenda del dolore alle orecchie. Era causato dall'aumento della pressione dell'acqua in profondità che generava una flessione del timpano che quindi arrivava a dolere. Con una maschera adatta si potevano stringere le narici con il pollice e l'indice e, spingendo come quando ci si soffia il naso, riequilibrare la flessione sulla membrana facendo scomparire il fastidioso disagio.
Lo zio fece di più; alcuni giorni dopo mi regalò una maschera modello "Pinocchio" della "Cressi Sub" che aveva la sagomatura per il naso. Era un attrezzo per esperti, una vera maschera da sub, non mi sembrava vero, che colpo avrei fatto sugli altri!
Grazie ai preziosi consigli appena ricevuti ed al nuovo attrezzo iniziai a scendere un po' di più arrivando fin quasi a quattro metri di fondo, in un'acqua davvero lontana mai raggiunta prima a nuoto dalla riva. Mi si era spalancato davanti un nuovo terreno di avventura e di scoperta.
Lo zio mi stupì ancora quando il giorno del mio compleanno mi fece dono di uno stupendo libro illustrato da bellissime fotografie, scritto dal comandante Jacques Yves Cousteau durante una spedizione in Mar Rosso. Ero ipnotizzato da quei fotogrammi che rappresentavano pesci giganteschi, tartarughe, delfini, piovre, mante, murene, squali, coralli multicolori. Le immagini che mi colpivano di più però inevitabilmente erano quelle che immortalavano i sommozzatori che elegantemente scivolavano dentro il mare.
Non so quante volte ho sfogliato quelle pagine, quante volte ho rivisto quelle foto, ma con sicurezza so che ogni volta che lo facevo mi staccavo dalla realtà, volando nel mio piccolo/grande sogno...
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