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PESCARA, PE - Pescara, Italy


Affascinato d'immersioni che ho sempre praticato in apnea, poi dal 1981 con autorespiratori (A.R.A. / A.R.O. / E.C.C.R.) e fin da ragazzo frequentatore della montagna, costantemente armeggio con, pinne, maschere, autorespiratori, corde, ramponi, piccozze e sci.
Tuffi ed ascensioni qui li racconto con "filmetti", parole e foto.

mercoledì 5 maggio 1999

--immersioni: "PICCOLI VIAGGI"


Ricordo di un'immersione fatta agli inizi di maggio del 1999.

Avevamo deciso, Federico ed io, di fare una capatina alle Tremiti proprio agli sgoccioli dell’anno 2011.
Una volta giunti lì l’amico Tony, il gestore del locale centro d’immersione che ci accompagnava con la barca, aveva ventilato l’ipotesi di provare a fare il tuffo sulla rinomata Secca di Punta Secca all'isola di Capraia.
Arrivati sul “cappello” di questa dove di solito si ancora, un’alta e fastidiosa onda rendeva più complicato del solito l’ormeggio, facendoci quindi ripiegare ad un punto di sosta per la barca decisamente più ridossato. In tal modo però la bella discesa sulle paramuricee bicolori veniva meno. Pazienza, d’altronde sapevamo perfettamente che per poter fare tale immersione sono sempre necessarie delle condizioni di mare e di corrente perfette.
Parlando con Federico della bellezza di tale sito subacqueo, mi è ritornato in mente di un tuffo fatto diversi anni fa (riguardando le mie note, agli inizi di maggio del '99) in solitaria, proprio sulla secca... A differenza delle immersioni che si effettuano da quelle parti, normalmente iniziate proprio sulla verticale che si raggiunge comodamente con una barca, quel giorno la feci partendo da terra.
Allora, come al solito, tutto era iniziato da Pescara alle sette del mattino. Caricata l’attrezzatura in macchina via sull’autostrada verso sud in direzione Termoli.
In poco meno di un’ora raggiungo il casello e poco dopo il porto giù in basso. Il tempo di parcheggiare la macchina, fare il biglietto per il traghetto, prendere al bar del porto un cappuccino, imbarcare tutti i pesanti accrocchi subacquei e sono a bordo pronto per la traversata che all’epoca veniva effettuata dalla motonave “San Domino” in un ora e 45 minuti.
Mi accomodai nell’accogliente sala e sedetti in una delle sue comode poltrone, sempre la stessa come in un rito.
Così, osservando il mare che scorreva di lato al grande finestrino rettangolare, smangiucchiando e sonnecchiando anche per qualche minuto, trascorsi quel limbo temporale che praticamente mi separava dalle isole.
Arrivai, e fu il solito scarica dalla nave e ricarica su un barcone di un locale che mi avrebbe finalmente portato, con una decina di minuti di navigazione, dall’Isola di San Nicola a quella di Capraia, base di partenza per la mia solitaria immersione.
Con il motore al minimo e procedendo lentamente, il barcaiolo accosta il suo natante all’alto scoglio che sovrasta il bordo di dritta. Si ferma il tempo necessario affinchè io possa scaricare le pesanti attrezzature, operazione che effettuo in certi momenti anche in precario equilibrio.
Comunque anche quest’ultima piccola fatica è fatta, saluto il “Caronte” accordandomi sull’orario nel quale dovrà venirmi a riprendere e, con il borbottio del motore che si affievolisce via via che si allontana la barca, rimango solo con lo stridio di alcuni gabbiani che volteggiano nei paraggi tra acqua e terra.
Sono le undici e 45, dopo circa cinque ore dall’inizio del viaggio fatto con automobile, nave e barca di legno, sono finalmente arrivato alla Cala dei Vermi. In particolare mi trovo sul versante meridionale dell’isola di Capraia, proprio sotto la caratteristica costruzione di un vecchio faro diruto. L’apice dell’isola, Punta Secca, si protende via via più sottile e con rocce graffianti ed erose dal mare verso nord-est.
Inizia quindi l’operazione dell’assemblaggio dell’autorespiratore e della vestizione della muta, non prima però di essermi riposato un po’ mentre riempio lo stomaco con qualcosa di solido e mi disseto con del the.
Finita la fase rifocillatoria ed indossata l’attrezzatura, facendo la massima attenzione a dove metto i piedi, cercando i migliori punti di equilibrio divenuto grazie al carico maggiorato da bombola e piombi in spalla più precario, mi indirizzo verso l’acqua distante una decina di metri. Un piccolo sforzo sopra una roccia per calzare le pinne e finalmente salto nell’elemento che mi rinfresca dopo il sudare degli ultimi minuti dentro la nera muta gommata.
Anche il peso è svanito d’improvviso: godo appieno di questa sensazione di assenza di gravità mentre galleggio in superficie.
Ora inizia la seconda fase del viaggio, mi attende un tratto di nuoto a pelo d’acqua di circa 400 metri, tanta è la distanza che separa la baia dalla quale mi sono tuffato fino alla sottile estremità dell’isola. Nuotare per 400 metri con addosso solamente un costume da bagno, in fondo non è poi una grande impresa, però farlo con un’attrezzatura da sub completa di muta pesante e bombola, posso assicurare che è cosa “lavorata”.
Con gambata calma, ma costante, senza mai forzare l’andatura lentamente percorro la distanza. Il sole mi riscalda la capoccia stretta nel cappuccio di neoprene che tolgo per rinfrescarla immergendola completamente più volte.
Per forza di cose con l'autorespiratore in spalla debbo nuotare sul dorso e quindi ogni tanto volto lo sguardo per essere sicuro di compiere la rotta più rettilinea possibile, non ho voglia di aggiungere ancora metri di pinneggiate.
Arrivato in prossimità della punta, dove questa è via via sempre più bassa rispetto al livello del mare, inizio anche a sentire i primi refoli della brezza che oggi soffia da nord. Non è un gran vento, fortunatamente il mare è appena increspato da piacevoli ondine e basta.
Ho terminato la seconda fase del viaggio.
Ora inizia la terza, quella subacquea.
Rispetto all’estremo lembo dell’isola, il “cappello” della secca si trova in mare aperto ad una distanza di circa 200 metri. Questi due punti sono uniti da una cresta sommersa che, partendo dal punto nel quale mi trovo degrada dal livello zero fino a circa 15 metri di profondità per poi risalire fino al culmine di un picco che svetta a 7 metri sotto il pelo dell’acqua. Questa struttura sommersa che devo percorrere non è rettilinea, ma forma un ampio arco.
L’immersione che andrò ad effettuare mi farà scendere a cinquanta e passa metri, profondità alle quali i consumi d’aria, per legge fisica, diventano sei volte maggiori rispetto a quelli che si avrebbero in superficie. In parole semplici nel fare questo primo tratto subacqueo devo rimanere il più possibile vicino alla superficie, sempre che non sia presente corrente. Nel tal caso, per offrirgli meno resistenza, dovrò nuotare vicino il fondale con la controparte di aumentare consumi. Insomma è un equilibrio tra il mantenere i consumi bassi nell’avvicinamento per avere maggiori quantità d’aria nelle fasi vere e proprie dell’immersione. A questo punto la tattica dipende dalla presenza o meno della corrente. Il dubbio però si dissolve subito iniziando l’immersione: se c’è corrente me ne accorgerò subito.
Oggi mi dice bene, meglio così.
Anche se l’acqua non è perfettamente limpida “sommozzando” a circa 5 metri riesco a scorgere il fondo sotto di me. All’aumentare della profondità diviene sempre più sfumato ma, comunque, ancora visibile.
Via così a mezz’acqua e come prima accadeva mentre nuotavo nel trasferimento con le attrezzature in superficie ora, ancor di più, pinneggio con ritmi blandi senza mai forzare il passo onde evitare un aumento della frequenza respiratoria, matematico fattore che decurterebbe inutilmente ancora un po’ la scorta di gas nelle bombole.
In questo tratto la mia attenzione non è rivolta alla vita marina che si svolge attorno a me, per il momento sono concentrato al raggiungimento del culmine della secca.
Questa, praticamente è il cocuzzolo di una montagna sommersa figurata con due versanti ben definiti: quello meridionale che degrada con moderate pendenze, e quello a nord che presenta una parete che cade giù dritta fino alla sua base attorno ai cinquanta metri. Lo scopo della mia immersione odierna è quello di scendere su questo muro ricchissimo di bellissime paramuricee bicolori gialle e rosse.
Controllo il manometro per verificare che i miei consumi, che oramai conosco a menadito, siano nella media stabilita. Fin’ora bene.
Con gli occhi che sbirciano il blu-azzuro del mare aperto, ad un tratto prima impercettibilmente e poi in modo sempre più netto mi si para davanti la roccia della parte più alta della secca che raggiungo sempre pinneggiando mai di fretta.
Ci sono. Scendo qualche metro e mi fermo in una rientranza della parete. Ricontrollo tutta l’attrezzatura, il manometro e me stesso per l’ennesima volta e quindi il viaggio continua guadagnando profondità mentre mantengo la falesia calcarea alla mia destra.
In ordine molto sparso vanno e vengono dalla parete piccoli gruppi di saraghi fasciati, alcuni dei quali, di dimensioni di tutto rispetto e illuminando le fenditure della roccia queste sono punteggiate di del giallo dei Leptosiamia.
In questo maniera arrivo fino ai 27 metri dove incrocio una netta spaccatura della roccia che seguirò fino in basso.
Intanto le gorgonie iniziavano a salire su questo palcoscenico, all’inizio discretamente, per diventare poi repentinamente le regine assolute dello spettacolo subacqueo. Una vera foresta ammanta ogni metro quadrato di superficie.
Mentre in caduta le sorvolo, le illumino all’alto dando vita così ai loro splendidi colori, i rami rossi sono spesso sfumati alle loro estremita di giallo.
Scendo fino alla base di questa montagna sommersa che ricorda nella forma la prua di una nave completamente capovolta. Davanti ai miei occhi ora si apre una grotta con una volta bassa, è quello che viene definito l’arco più piccolo. Questo infatti attraversa da parte a parte questo bastione roccioso. Tutto il suo interno è tappezzato da gorgonie e da altri organismi marini incrostanti, sarebbe meglio dire un groviglio vivente colorato, tutti accarezzati dalle bolle di scarico che escono dal mio autorespiratore.
Neanche il tempo di essere fuori, dall’altra parte della “carena” , che lasciandomi per pochi metri la parete ora alla mia sinistra, mi trovo proprio alla base del secondo arco.
Molto più grande del primo, questo è l’indiscusso protagonista dell’orizzonte subacqueo, infatti con un unico colpo d’occhio abbraccio il suo vuoto color azzurro ed il suo pieno più scuro ed indefinito.
Mentre mi dirigo per attraversarlo e quindi tornare sul versante della parete sul quale ero sceso, avidamente osservo tutto il panorama rosso e giallo: emozionante! Sul pavimento di detrito a grana grossa c’è uno scorfano gigantesco.
Sempre lentamente procedo. Non un colpo di pinna più veloce, ricontrollo il manometro, ricontrollo l’attrezzatura, ininterrottamente “ascolto” il ritmo costante del mio respiro.
Superato totalmente l’arco continuo la discesa, ancora con la parete sulla destra, volontariamente demoltiplicando ogni mio gesto. Riduco tutto al minimo. I soli movimenti pensati sono quelli dei blandi colpi delle mie gambe per spingere sulle pinne e del collo per voltare il capo a destra e sinistra per osservare.
Nuoto a qualche palmo dal fondo sopra un sedimento sabbioso.
Vado giù fino a qualcosa di più di sessanta metri.
A questo punto decido di allontanarmi un po’ dalla roccia e, dirigendomi verso il mare aperto, me la lascio alle spalle. Qui sotto la visibilità oggi è di gran lunga migliore rispetto alle fasce d’acqua superficiali ed appunto per questo motivo non capisco cosa sia una zona che mi si presenta davanti come un esteso banco di nebbia stazionante sul fondo, e spesso 3 o 4 metri.
Incuriosito mi avvicino illuminandolo con il faro sub per capire di cosa si tratti.
Ad un attento sguardo vedo che questa nebbia è formata da un infinito numero di esserini minuscoli pulsanti in movimento, probabilmente delle forme larvali di una qualche specie marina, almeno credo.
Smetto con l’osservazione di questo momento di vita sommersa in questo angolo di mare ed incomincio il viaggio di ritorno, riportandomi sulla parete che qualche minuto prima mi ero lasciato alle spalle.
Mi appresterò ad effettuare la risalita non percorrendo la strada dell’andata, cioè passando per gli archi, ma transitando ad una quota a loro superiore in una continua e lenta ascesa verso l’alto.
In questa fase osservo per bene le ramificazioni delle gorgonie con tutti i loro polipi espansi. Inoltre in lontananza dalla roccia, a momenti, si distinguono dei lampi argentati sfrecciare dal basso verso l'alto: è un branco di palamiti.
Così vado su verso la cima della montagna nuotando ora in senso antiorario e scrutando dentro delle incise fenditure che caratterizzano una parte della parete. Una di queste è la dimora di una murena che al mio passaggio non si ritira all'indietro, ma segue con il capo la mia direzione.
La maggior parte dei sub che effettua l’immersione per vedere queste gorgonie, alla fine ha fretta di risalire perché tanto il bello lo si è oramai lasciato alle spalle. Io, invece, non ho nessuna fretta. So che il mio viaggio subacqueo è ancora lungo e quindi, mai fermandomi, guardo tutto quello che c’è intorno con curiosità anche se i bei colori accesi incontrati laggiù non ci sono più a farmi compagnia.
Intuisco il cappello della secca a qualche metro sopra di me, però non risalgo di quota. Visto che la scorta d’aria è un po’ al di sopra della media prevista, preferisco nuotare ancora per qualche tempo ad una decina di metri di profondità prima di riportarmi al livello decompressivo dei 6 metri.
La lunga pinneggiata di superficie fatta all’inizio, il tempo trascorso sott’acqua fin’ora e, soprattutto, il tempo che dovrò trascorrere ancora prima di poter togliere la muta mi fanno prendere una decisione non da poco!
Ho la vescica piena, resistere ancora sarebbe oltre che fastidioso anche spiacevole: faccio un pisciatone.
Wow! Libero e senza costrizioni fisiche adesso mi muovo meglio, il pedaggio sarà quello di risciacquare la muta per bene una volta tolta.
All’andata avevo percorso il tratto dalla Cala dei Vermi fino alla punta dell’isola galleggiando in superficie, adesso invece con rotta subacquea per sud-ovest dal culmine della secca, navigherò immerso su un fondale formato da lame di roccia parallele tra loro, ricche di polpi e musdee. Così sorvolo insenature sommerse, baiette, fiordi, piccole paretine, che non mi lasciano annoiare per nulla fin quando, smaltita tutta la decompressione, riemergerò dopo 80 minuti trascorsi sott’acqua nei pressi della cala dalla quale ero partito.
Il viaggio subacqueo è terminato.
Ora mancano ancora altri viaggetti: uno con una barca di legno, uno con una nave decisamente più grande e l’ultimo con un’automobile.
Nell‘attesa che ritorni il “Caronte“, godendomi questa beata solitudine, ripenso a tutte le belle sensazioni vissute durante questa solitaria immersione.

Giacinto Marchionni

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