DIVING & MOUNTAINS
Quando
mia figlia
era piccola,
un giorno
una signora
troppo curiosa
le chiese:
"MA CHE LAVORO FA
IL TUO PAPA' ?"
Lei ci pensò
un po' su.
Poi le rispose:
"LE IMMERSIONI
IN MONTAGNA !"
- Giacinto "zeta zeta" Marchionni
- PESCARA, PE - Pescara, Italy
Da sempre appassionato d'immersioni che ho iniziato in apnea e dal 1981 con autorespiratori ad aria, ossigeno e circuito chiuso. Nel poco tempo rimanente mi arrampico sopra qualche montagna.
Tuffi e scalate li racconto con "filmetti", parole e foto.
sabato 30 giugno 2018
^^montagna: "SIRENTE: QUANTO SILENZIO / CUMBRE"
Questo scritto necessariamente è un po' lungo, lettore porta pazienza.
Lo spunto per andare a scalare sull'Altare della Neviera del Sirente la via Quanto Silenzio (V°/D/100mt. aperta da M.Prignano e comp. nel 1984), aveva solleticato la mia fantasia già da tempo. Grazie a Cristiano che mi fornisce relazione e foto molto chiare posso iniziare a concretizzare i pensieri.
Con la documentazione al solito da me incellofanata ed in saccoccia, assieme a Fausto giungiamo nella fresca mattina del 30 giugno 2018 presso lo "Chalet del Sirente" da dove all'ombra della bella faggeta iniziamo l'avvicinamento.
Nel cuore dell'Appennino Abruzzese questo massiccio montuoso remoto, solitario e silenzioso da sempre ha esercitato su di me un grande fascino.
Dal punto di vista dell'alpinismo su roccia il Sirente è poco frequentato sia a causa degli avvicinamenti alle vie molto dispendiosi in relazione ai dislivelli da scalare, che per il tipo di calcare molto lavorato dal ghiaccio invernale.
Dopo essersi pressata a dovere, la molla della motivazione mi ha spinto per un'ascensione nel cuore del Sirente e precisamente sul pilastro di nord-est dell'elegante struttura chiamata Altare della Neviera che si raggiunge all'inizio salendo per sentiero sotto il bosco come stiamo facendo e poi per ripido e lungo vallone glaciale di instabili e franosi sfasciumi sassosi, lasciandoci alle spalle in totale un dislivello di quasi 800 metri da quando abbiamo chiuso lo sportello dell'automobile.
Piano, diversamente non si potrebbe, ci troviamo a salire verso l'attacco che già individuiamo seppur lontano ed ancora in alto non appena siamo fuori dal fitto degli alberi.
Un po' alla volta, un passo dopo l'altro l'obbiettivo s'ingrandisce davanti ai nostri occhi fin quando sudatissimi e dopo aver fatto non so quante scivolate indietro sul pietrisco giungiamo dopo circa due ore alla base dell'Altare.
La via che ci stiamo per salire fu chiamata dagli apritori "Quanto Silenzio".
Anni dopo un'altra cordata pensando di essere la prima a mettere le mani in quella zona, aprì e nominò "Cumbre" la scalata. A tutti gli effetti però i secondi non avevano fatto che la prima ripetizione di "Quanto Silenzio", la questione alpinistica verrà chiarita in seguito.
A parte però la cronologia e le note a riguardo dei tiri e difficoltà, c'è una postilla che focalizza la mia attenzione:
"... roccia buona, a tratti anche ottima ...".
Nome azzeccatissimo Quanto Silenzio. L'ambiente attorno è austero con assenza di rumori, a parte un lieve fruscìo del vento.
Le difficoltà sono esattamente quelle descritte. Le soste incontrate giuste. La verticalità è totale: quando guardo in basso tra le scarpette vedo le corde che vanno a piombo dentro i moschettoni. Eccellente è la possibilità di poter posizionare diverse protezioni intermedie.
La giornata è soleggiata e la parete è ancora in ombra, quindi con temperatura ideale.
La cosa però che mi ha stupito positivamente è che la postilla che parlava di roccia ottima non esagerava. Le mani ed i piedi fin'ora hanno sempre avuto prese ed appoggi su un super grip.
Sono arrivato sotto un muretto verticale fiancheggiato da una grande scaglia di roccia che con il corpo principale della montagna forma una fessura attraverso la quale ci guardo attraverso. Poco sopra intravedo la minuscola piazzola della sosta.
Prima di alzarmi mi proteggo con un "friend" (piccolo attrezzo a camme mobili che si posiziona bloccandosi nelle spaccature), e poi effettuo il movimento di rimonto.
Sulla sinistra vedo un chiodo sul quale mi fermo assicurandomi. Poi con tutta calma visto che ne ho sia il tempo ma soprattutto la possibilità, rinforzo la sosta posizionando prima un altro friend e poi montando un terzo ancoraggio grazie ad una piccola "clessidra", foro d'erosione passante nel calcare, nella quale infilo un cordino che congiunge i tre punti. Solo allora dico al secondo di salire.
Il piccolo pulpito con due persone è scomodo. Tiro fuori lo scritto per rileggere la descrizione della successiva sfilata: "Salire dritti verticali sulla sosta, quindi aggirare sulla sinistra un piccolo strapiombo ...", superato quindi questo tratto verticale seguito poi da un altro più appoggiato dovremmo uscire dalle difficoltà sul pianoro sommitale dell'Altare della Neviera del Sirente.
Inizio ad osservare.
Sulla destra c'è un piccolo scavo del calcare dove infilo il piede destro.
Poi con la mano destra a cercare e trovare una presa per le dita un po' svasata ma sufficientemente buona.
Una tacca quasi all'altezza del ginocchio è il terzo punto grazie al quale riesco a caricare con delicatezza il piede sinistro ed innalzarmi.
Allungo il braccio sinistro ed individuo una presa che mi consentirà il movimento in diagonale alta a mancina e più su, per il momento non a portata di mano, vedo un potenziale punto per potermi proteggere.
Mi muovo assaporando solo per qualche secondo il gesto della scalata perchè all'improvviso, perdendo ogni riferimento nello spazio mi sento precipitare.
In questo brevissimo flash spazio-temporale mi rendo conto che sto volando faccia a valle: vedo la morena sassosa del vallone dove prima faticavamo in salita. Mi spavento e riesco anche a formulare un pensiero: "Spero che la cazzo di sosta regga!"
Poi in rapida sequenza o forse contemporaneamente lo strappo non forte ma deciso sull'imbrago con il blocco del volo: "La sosta ha tenuto!"
Un secco colpo all'osso sacro con un'immediato dolore fortissimo che mi lascia senza fiato.
Una grandinata di pietre sul casco e l'inconfondibile odore di zolfo che si sente quando dei sassi con forza urtano tra loro.
Il tutto accaduto in un tempo nettamente inferiore rispetto a quello che si impiega per leggere questa frase.
Poi tutto tace.
Mi ritriovo appeso qualche metro sotto la sosta scosso da un tremore incontrollato e con il cuore che mi martella forte e senza tregua.
Il fortissimo dolore pulsante all'osso sacro diventa protagonista. Chiamo, Fausto mi risponde e ci scambiamo subito le prime parole.
Piove ancora pietrisco, non guardo verso l'alto. Osservo ancora tremare le mani tutte spellate.
Devo tornare a pensare per riguadagnare il pulpito di sosta sopra. Allora mi sistemo come meglio posso con i piedi su una minuscola cengia e mi agguanto a qualcosa sulla parete sulla quale mi schiaccio immobile, ma con ancora con il respiro fuori controllo.
Accenno ad uno spostamento. Sento però immediatamente la fitta dolorosa in basso sulla schiena acuirsi, e m'immobilizzo.
Vorrei rimanere dove sono perchè irrazionalmente in questo momento ho la convinzione che possa crollare qualsiasi cosa.
Però devo scuotermi e non poco mi forzo a farlo.
Per la seconda volta, pianissimo, con intenso dolore e pensieri cupi nella testa scalo lo stesso passaggio sul quale poco prima mi muovevo solo con la piacevole concentrazione dei miei gesti. Mi ricongiungo a Fausto.
Osservo prima in basso vedendo i suoi piedi e le corde posate a terra ricoperte di pietrame, poi in alto dove al posto del tratto sul quale quale mi trovavo è rimasto solo un vuoto di color rosso-giallastro che capisco essermi franato sotto i piedi.
Tra lo shock ed il fortissimo dolore non mi riesce facile pensare.
Ho la bocca e la gola secche, devo bere. Poi mangio qualcosa, ne sento l'esigenza. Passa qualche minuto e questa parentesi mi ricarica un po'.
Di continuare conciato come sono non se ne parla. L'unica prospettiva è quella della discesa in corda doppia sulla via.
Così inizio a fare. Per prima cosa pulisco il piccolo pulpito dove siamo dal pietrisco che scaravento lontano nel vuoto e poi ordino per bene le matasse delle corde. Pur essendo stato solo spettatore, il mio compagno comunque è molto provato.
Queste semplici operazioni fatte a memoria in montagna non so quante volte, ora mi costano una faticosa concentrazione mentale che unita alla sofferenza fisica mi costringono a riordinare le idee e riprendere fiato ogni pochi minuti.
Ultimato il lavoro, controllo ancora una volta tutta l'attrezzatura fissa dell'ancoraggio quindi non lancio le due corde nel vuoto, ma molto lentamente facendole scorrere una manata dopo l'altra con il discensore calo Fausto, rallentandolo ed assicurandolo ulteriormente grazie ad un nodo Prusik.
In un tempo che mi è sembrato infinitamente dilatato e parlando sempre tra noi, lui è arrivato.
E' il mio turno. Ricontrollo tutto ripetendomi le cose da fare a voce alta. Posiziono il discensore e verifico ancora. A corde distese, pianissimo scivolo giù. Ad ogni lieve inclinazione del busto corrisponde una fitta dolorosissima. Proseguo sempre lentissimo cercando di dare meno strattoni possibili per non far spostare il residuo pietrisco in bilico. Metro dopo metro a ritroso rivedo tutta la parete che mi aveva assorbito in salita, ma della quale ora non me ne frega proprio un cazzo. Quando ho la possibilità di poter appoggiare mani e piedi mi fermo a riposare.
Ancora pochi metri ed atterro anch'io.
Tiro un primo sospiro di sollievo ben consapevole del fatto che non è finita.
Madido di sudore, sfinito di stanchezza e con un dolore che senza tregua pulsa ininterrotto, mi sdraio di lato sull'erba sotto le rocce ad occhi chiusi. Pare strano, eppure così riesco anche ad estraniarmi dal luogo e dalla situazione.
Riapro gli occhi. Il tempo della pausa è terminato. Inizia la via crucis della discesa sulla pietraia che in queste condizioni già dai primi metri mi spacca. Riesco a malapena a sollevare il tallone sinistro al massimo di una spanna dal suolo. Oltre, tutti i muscoli della gamba e del gluteo tirano la parte colpita facendomi sentire molto male. Per quanto possa dosare il peso sulle gambe qualsiasi posizione d'equilibrio riguarda tutti i muscoli e le ossa, e la conseguenza è che continuo ad essere pestato pesantemente.
Nonostante queste costanti fitte acute, però cammino, mi muovo con le mie gambe e ciò mi rincuora non poco.
Più volte ci troviamo a scivolare sulle ghiaie ed allora sono altre imprecazioni su imprecazioni.
Sono circa 300-350 i metri di dislivello da scendere in queste condizioni dentro la pietraia irregolare del vallone morenico della Neviera prima del sentiero e la faggeta, che in basso paiono essere sempre immobili e lontani.
Così facendo finalmente in non so quanto tempo, riusciamo a portarci al limitare dei primi alberi dove abbiamo tutti e due bisogno di stare fermi, bere e mangiare.
Prima di ripartire sotto di noi vedo una radura sulla quale distintamente spicca la traccia del sentiero. Per raggiungerlo nel più breve tempo possibile tiro la linea tra dove siamo e quel punto, e m'infilo senza esitare dritto nella fitta ramaglia bassa dei faggi. In una situazione normale mai mi ci andrei a ficcare e farei un più largo e logico giro. Ma oggi non è una situazione normale perchè ogni metro in più aggiunto alla calata sarebbe tanto dolore acuto in più. I bassi rami davvero impacciano il procedere, però almeno per me hanno un rovescio della medaglia perchè aggrappandomici con le mani scarico il peso dalle gambe e dal punto ferito.
Arrivati sul sentiero raccolgo due rami che userò come bastoni d'appoggio, ma devo sempre fermarmi ed adagiarmi sul lato destro per riposare ogni pochi minuti perchè l'accumulo di stanchezza, sofferenza fisica e stress non mi consentono di più.
Se penso a quanto manca per ritornare alla macchina mi scoraggio, ed allora mi vieto di pensare al lontano obbiettivo concentrandomi esclusivamente sulla successiva tappa possibile in vista: un albero, una pietra, una svolta del sentiero, ed una volta che ci sono arrivato immediatamente ne cerco un'altra più giù. Con questo stratagemma che in certi momenti funziona ed in altri meno, proseguo contando i minuti, i passi, ed a volte persino i secondi.
Così facendo in quasi sei ore di travaglio da quando abbiamo lasciato la parete, in salita l'avevamo fatta in due ore, torniamo al parcheggio dove stremato mi distendo sulle foglie per terra non so per quanto tempo.
Fausto guida ed io sul lato passeggero ho reclinato tutto il sedile per stare coricato di fianco perchè rimanere seduto è praticamente impossibile. Appena riesco contatto Carla e le racconto tutto. Lei ascolta. Capisce cos'è successo e mi chiede se riesco a star seduto. Alla mia risposta che non è proprio cosa, da ex atleta, allenatrice ed attenta conoscente di traumatologia sportiva anticipa quello che sarà il responso oggettivo dell'esame radiografico del giorno dopo: "Molto probabilmente ti sei fratturato l'osso sacro".
Tanto è stato.
Rientro a casa alle ventidue e trenta. Dodici ore prima a causa di un crollo di una roccia ero volato ritrovandomi appeso ad una corda su una parete di montagna ferito e molto spaventato. Dolorosamente, ma fortunatamente con le mie forze sono riuscito a riportarmi a valle. Rientrare tra le mura amiche, seppur con le energie ridotte quasia zero al lumicino, è una bellissima sensazione. A caldo questa è la prima considerazione.
In trent'anni di attività non so quante volte mentre scalavo sono passato su rocce con colore diverso dove in epoche precedenti, giorni, mesi, anni, secoli o millenni c'era una qualche struttura rocciosa che poi un giorno per la naturale erosione causata da ghiaccio, neve e pioggia in un attimo è caduta giù. Questa è la normale essenza della genesi di tutte le montagne.
Sono precipitato perchè un pezzo di roccia sul quale mi trovavo è crollato. Se ciò fosse accaduto geologicamente qualche giorno o mese o secolo più tardi sarebbe stato sicuramente meglio per me.
Sfortuna? Si, forse. Nel calcolo delle probabilità ho pescato la penalità. Avrei avuto però le stesse identiche probabilità, ne' più ne' meno, di pescare il Jolly. Però chissà poi quante altre volte gli alpinisti sono passati su solide rocce che poi un giorno crolleranno? E chissà quante volte ho, o abbiamo pescato il Jolly e non ce ne siamo resi conto? Questi ragionamenti si possono applicare indistintamente in qualsiasi attività umana e di vita, e non solo in certe pratiche più esplicitamente non scevre da rischi oggettivi come scalare montagne.
Anche un pizzico di fortuna c'è stata?
Si, forse, però da un punto di vista logico il ragionamento è identico e diametralmente simmetrico a quello fatto prima perché sono contemporaneamente complementari l'uno all'altro da qualsiasi punto li si osservi.
Dopo una manciata di ore dal fatto, anche se duramente pestato, sono rientrato a casa.
Quando scalo in montagna sono circospetto perchè ogni gesto lo penso e lo ripenso prima di farlo. A volte sono lento anche perchè se ce n'è la possibilità non esito a proteggermi anche più del necessario, e per questo a volte discuto con qualcuno dei miei compagni di cordata che mi sollecitano.
Scalo spesso con lo zaino perchè è parte della mia attrezzatura e di me quando vado sui monti. Nonostante la frattura comunque lo zaino ha ammortizzato il colpo.
Da tre decenni scalo da primo di cordata e ciò mi ha fatto acquisire sicuramente una maggior attenzione nei confronti innanzi tutto verso me stesso. D'infinita riconoscenza per i cari che sono a casa e che da sempre hanno supportato e sopportato le mie grandi passioni. Di senso di responsabilità per le persone legate all'altro capo della corda.
Questo esperienza, dentro di me ha amplificato la consapevolezza di sapere di essere in un ambiente che per quanto bello, affascinante e capace di regalare emozioni uniche è comunque alieno.
Ciò vale sempre non solo quando si fa alpinismo ma anche quando, e solo apparentemente senza rischi, si va a fare una semplice passeggiata tra i monti o a raccogliere funghi.
Giacinto Marchionni
giugno 2018
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Relazione dettagliata ed emozionante;nella sfortuna la tua prudenza ha avuto un ruolo determinante, credo. È anche per questo che sei uno dei pochissimi compagni con cui ho scelto di scalare. A presto, Giacinto, sui monti!
RispondiEliminaCiao, non mi è apparso durante l'apertura di cumbre ci fossero segni di passaggio, un chiodo lo individuammo a destra sullo spigolo,
RispondiEliminaNel 2008 apri un altro itinerario chiamato nuove dimensioni sul 6b, aperto solo con friend e nut.
Bel racconto ,bravo
Beh, innanzi tutto complimenti a te per le aperture di nuove vie su roccia sul Sirente, decisamente poco frequentato dagli Appenninisti/alpinisti.
RispondiEliminaLe informazioni riguardanti le coincidenze degli itinerari delle vie Quanto Silenzio e Cumbre le ho reperite sulla guida "Passi di V°" di Cristiano.
Credo che su quel pilastro di non grandi dimensioni non sia improbabile l'incrociarsi od il sovrapporsi di diverse linee.
Ciao
Giacinto.